mercoledì 10 marzo 2010

Il dibattito tra credenti e non credenti, atei e cristiani, laici e laicisti infiamma tutti i settori della società. Eppure esso si svolge per lo più a un livello di superficie, tanto che si ha l'impressione che i ruoli si confondano: che i veri credenti siano gli atei, che i laici portino avanti ragioni che i chierici dimenticano e che le motivazioni dei laicisti combacino, per una strana alchimia, con quelle dei cattolici più ortodossi. Questi paradossi, come mostra Marco Vannini in questa riflessione, hanno radici profonde e non sono per nulla casuali: consistono nella dimenticanza di una serie di categorie che hanno attraversato la tradizione più alta dell'Occidente, a partire dalla filosofia greca, attraverso i mistici e i filosofi della modernità, sino a personalità come Simone Weil. Che Dio sia Spirito; che la religione sia essenzialmente un rapporto nello Spirito in cui Dio e uomo si muovono l'uno verso l'altro, l'uno nell'altro; che la vera religione sia uno spogliarsi della propria volontà, liberarsi dalla costrizione delle cose del mondo per entrare in una dimensione di libertà, di grazia. Questi concetti si sono via via eclissati a favore di rappresentazioni più comode di Dio e della religione, spesso ridotta a una dottrina morale, a una serie di precetti fisici, addirittura sessuali. E di questo oblio colpevoli non sono tanto i laici o gli atei ma, piuttosto, chi di questa tradizione doveva farsi depositario e custode: la Chiesa.

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